Pubblicato sulla rivista Altro&Oltre nr. 29, marzo 2019
Cosa sarebbe stato
Dover, 29 marzo 2019, ore 00,00. Una folla brulicante di umanità dai colori più svariati si aggira furtiva nel porto di Dover. Sono tanti, arrivano coi traghetti. Polizia e filo spinato ovunque. Si cerca di contenerli. Con la Brexit ci si aspetta un picco del fenomeno migratorio. A Calais – frontiera per il controllo passaporti per chi accede nel Regno Unito – non si riesce più a verificare i movimenti degli stranieri. Il Paese, non avendo aderito agli accordi di Schengen, si avvale della collaborazione francese. Questo supporto deriva da accordi bilaterali tra i due stati ed è di recente stato ribadito. Rimarrà anche con una Brexit senza accordo?
I Tir affollano la corsia supplementare appena costruita per smaltire la ripristinata dogana. E’ confusione ovunque. Clacson che suonano e intemperanze continue. Chi non deve consegnare beni di prima necessità, ha rinunciato al trasporto. File interminabili nel tunnel sotto la Manica. Giornali, radio, televisioni, notizie in rete, sconsigliano i cittadini Ue di mettersi in viaggio per l’Inghilterra. Fantascienza? Forse, ma non troppo.
C’è chi ha accumulato scorte per assicurarsi mesi di vettovaglie: scatolame, cibo, medicinali. E non sono solo i cittadini a far magazzino. Anche il Governo di Theresa May ha attivato procedure per aumentare le giacenze di medicinali e così le aziende del manifatturiero. Ritardi negli approvvigionamenti significano danni ingenti per le imprese, talvolta incalcolabili. Non siamo sull’orlo di una guerra. Ma di un disagio terribile sì. Secondo uno studio dell’Università di Padova, se, dopo una calamità naturale, un’attività produttiva non riesce a rimettersi in moto entro una settimana, ha il 90% di probabilità di chiudere entro l’anno.
Brexit calamità naturale?
La Brexit può definirsi una calamità naturale? Non proprio. Sicuramente lo è una Brexit senza accordo (no deal) con Bruxelles. Sarà uno tsunami economico senza precedenti. E anche politico. Improvvisamente ritornerà la frontiera tra Irlanda del Nord e Irlanda del Sud. A rischio l’equilibrio faticosamente conquistato con gli accordi di Belfast del 10 aprile 1998 dopo quasi vent’anni di terrorismo e guerriglia. Ed è proprio qui che di fatto si è arenata la trattativa per un accordo tra Ue e Londra. Quando si dice: il diavolo è nei dettagli. Gli inglesi non avevano considerato con la dovuta attenzione la beffa di un ritorno della frontiera fisica tra Irlanda del Nord e Irlanda del Sud. Destabilizzante proprio per il mantenimento della pace tra le due Irlande e in grado di rinfocolare le istanze degli unionisti.
A cosa ha rinunciato il popolo della Gran Bretagna?
Un passo indietro per capire meglio a cosa l’Inghilterra ha deciso di rinunciare e quello che, accordo o non accordo, comunque accadrà. Unione Europea: prima potenza economica mondiale. Leverage, ovvero potere contrattuale, nei confronti degli altri paesi, altissimo. Non esiste stato al mondo, che non voglia far affari con noi. Siamo il continente più evoluto e più ricco del Pianeta. Il più ambito. Come noi neppure gli Stati Uniti d’America. Molti non lo sanno. È così. Siamo una sorta di Gigante economico che sull’economia basa la sua forza.
A dicembre 2018, il Parlamento Europeo ha approvato un importantissimo accordo commerciale tra l’Unione Europea e il Giappone, che istituirà un’area di libero scambio per quasi un terzo di tutto il valore degli scambi commerciali a livello mondiale. L’accordo si chiama Economic Partnership Agreement (EPA) ed è il più importante mai negoziato dall’Unione Europea. Le trattative sono iniziate nel 2013. L’accordo prevede l’abolizione delle tariffe su moltissime merci, incluse le auto. Sono in corso intese preliminari anche con l’UK, con la premessa che le condizioni giapponesi non saranno così vantaggiose come quelle negoziate con l’Ue. Da sola l’Isola non pesa come il ricco consesso Europeo.
Secondo alcune stime elaborate dal ministero dell’Economia di Londra, nel Paese, in caso di no deal, la contrazione dell’economia potrebbe raggiungere il 9,3% nei prossimi 15 anni. Secondo gli studi del governo in carica in valori assoluti i costi del divorzio da qui al 2033 vanno da un minimo di 60 miliardi di sterline fino a un massimo di 200 miliardi in caso di no deal. Secondo una valutazione (per difetto) di Ernest Young, ben 800 miliardi di sterline sarebbero state spostate fuori dal Regno Unito. Si tratta di circa il 10% del patrimonio totale gestito dalle istituzioni finanziarie della City londinese. Molte istituzioni finanziarie hanno trasferito i loro head quarters sul continente.
L’Ema, Agenzia europea per i medicinali, da Londra è in partenza per l’Olanda. Lo stesso sono in procinto di fare molte delle case automobilistiche straniere. Honda ha già annunciato la chiusura del suo stabilimento europeo di Swindon dal 2022. L’Isola garantisce una tassazione più mite, una legislazione sul lavoro più flessibile e minore burocrazia rispetto alla gran parte dei paesi continentali. Dal 29 marzo col ripristino delle tariffe commerciali e delle pratiche doganali, non più.
E poi ci sono sistemi satellitari condivisi per il sorvolo dell’Ue e le tecnologie satellitari Gps. Gli aerei civili non rimarranno a terra. Vi sarà però una drastica riduzione dei voli e un aumento considerevole dei prezzi. Il Regno Unito non potrà usufruire di Galileo, un sistema di posizionamento globale via satellite che entrerà in funzione nel 2020. E’ un progetto europeo che sgancerà l’Europa dal sistema satellitare statunitense. Col vantaggio di fornire posizionamenti più precisi a tutto vantaggio di operazioni militari e di intelligence. E senza il rischio che gli americani stacchino la spina, come previsto in caso di guerra.
…e le conseguenze potrebbero essere più impreviste del previsto
Tantissimi altri risvolti più o meno conosciuti potrebbero rendere ancora più fosche le prospettive. Il fitto reticolo di accordi è quasi infinito e deriva da quasi 50 anni di permanenza nell’Unione. Anni che hanno plasmato le vite dei cittadini, degli stati e delle imprese, creando consuetudini e certezze che svaniranno e dovranno essere rinegoziate. Non si sa con certezza con quante e quali conseguenze. Di sicuro la vicenda anglosassone ci rende la consapevolezza che l’Europa, pur con tutti i suoi difetti, rappresenta oggi più di ieri una grande opportunità: la capacità di competere con successo in un mondo globale. Chi è fuori si condanna alla marginalità.
La notizia di oggi, 22 marzo 2019
E’ di oggi la notizia che sarà concessa alla Gran Bretagna una proroga breve fino all’11 aprile, con lo scopo di sottoporre a un nuovo voto l’accordo May. Cosa potrebbe accadere? Verrà approvato l’accordo e il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea entro il 23 maggio (cioè il 22 maggio) e non il 30 giugno come richiesto da May. Il 23 maggio è la data per le elezioni del nuovo Parlamento europeo e si vuole evitare che il paese possa partecipare alle elezioni con l’uscita alle porte.
L’accordo non verrà approvato. 2 i possibili scenari: Londra dovrà organizzarsi per prendere parte alle elezioni europee di fine maggio come tutti gli altri Paesi dell’Unione. In questo caso i tempi della Brexit si allungherebbero di parecchio, visto che difficilmente Bruxelles concederebbe questa possibilità con una successiva uscita del Regno Unito a tambur battente. Oppure dovrà uscire dall’Unione quello stesso 12 aprile senza un accordo (il cosiddetto «no-deal»): come ricorda la Bbc, infatti, «non è possibile rimanere anche per un periodo breve nella Ue senza eurodeputati».