Pubblicato sulla rivista Altro&Oltre nr.9, marzo 2014
Per sapere quale sia il vero sommerso del nostro Paese guardiamo a chi ci sta a fianco: donne, mamme, persone che ogni giorno, col loro impegno, lavorano, insegnano, educano, mandano avanti la casa e spesso, soprattutto al Nord, lavorano.
Quale la qualità della loro vita? Quando lavorano anche fuori dalle mura domestiche scarsa. Devono barcamenarsi tra mille impegni la cura dei figli a volte dei genitori anziani e contano sul poco aiuto dei loro compagni. Per questo carico che le affoga, spesso lasciano il lavoro a scapito di crescita professionale e reddito.
I numeri la dicono lunga su come se la passano le italiane lavoratrici. In Italia ci sono ormai più laureate che laureati. Ma quando queste lavorano sono pagate meno degli uomini e hanno minori prospettive di carriera. Sono dunque sottoutilizzate: uno spreco di talenti.
Secondo il Global Gender Gap Index che misura le disparità di genere tra 135 stati messi a confronto, l’Italia si posiziona all’80° posto (dati 2012). In prima posizione l’Islanda, al 13° posto la Germania al 18° il Regno Unito e al 22° gli Usa. E, come emerge dai dati forniti dagli atti degli Stati generali sul lavoro delle donne in Italia tenutosi a Roma lo scorso aprile, il tasso di occupazione femminile in nel Bel Paese resta tra i più bassi dell’Ue: 47% contro una media Ue a 27 del 62%. Il divario è molto forte tra Nord e Sud: il minimo è raggiunto in Campania con il 31% e il massimo in Emilia- Romagna che si attesta al 65% (dati Istat 2011). Ma guardiamo alla distribuzione dei compiti tra uomini e donne. Secondo un’indagine Ocse 1998-2008, le italiane passano più del 20% del loro tempo a sbrigare faccende domestiche contro il 5% speso dagli uomini. Siamo secondi solo al Messico.
Maggiore occupazione femminile significherebbe più indotto per servizi alle famiglie e quindi incremento del Pil; più reddito disponibile e quindi più sicurezza.
Di qui una seria riflessione che parte da una considerazione relativa al mondo del lavoro e alle modalità di organizzazione e reclutamento del personale.
Le competenze organizzative di mediazione e di visione generale che si acquisiscono infatti nella vita di una donna potrebbero diventare skills formidabili per gestire con successo le fattispecie lavorative e sono fattori strategici per coordinare un team. Rappresentano un bacino di capacità che rimangono di frequente inespresse e che il mondo produttivo fatica a riconoscere.
Dunque, accanto alle responsabilità delle istituzioni, ci sono quelle del mondo dell’impresa dove permane una visione ristretta, e una mancanza di lungimiranza, salvo alcune eccezioni, nel comprendere i cambiamenti che potrebbero consentire la valorizzazione del lavoro femminile. Internet ha consentito di condividere le nostre esperienze, le nostre foto e talvolta le nostre professionalità ma i luoghi di lavoro sono ancora fisici e organizzati secondo la vecchia logica del lavoro a catena, certo ancora valida quando si tratti di lavori manuali, meno per quelli intellettuali ora predominanti nei sistemi industriali moderni e con lo sviluppo del terziario. E’ qui che le donne potrebbero lavorare da casa, mettersi in rete, passare consegne on line e collaborare con altre colleghe. Potrebbero gestire con elasticità lavoro e vita famigliare con grandi vantaggi a favore della collettività. Si pensi al miglioramento dell’ambiente. Meno auto in giro, meno inquinamento e soprattutto minori costi. Ottimizzazione dei tempi e riduzione dei tempi morti. Senza parlare della flessibilità che questa forma di impiego potrebbe offrire al datore di lavoro. L’incarico potrebbe essere organizzato sulla base di obiettivi da raggiungere in arco temporale definito, con compiti da svolgere e un risultato da ottenere. Via dunque la più tradizionale marcatura del cartellino e avanti con il merito e i risultati. Sindacati e istituzioni dovrebbero fare la loro parte per modernizzare una legislazione del lavoro vecchia, rigida e che, allo stato attuale, disincentiva all’assunzione e crea disoccupati.
Dove invece permane un’organizzazione del lavoro più tradizionale, la soluzione potrebbe essere part time con condivisione delle mansioni. E’ questa una formula sperimentata con successo nel Nord Europa ma che da noi stenta ad affermarsi.
Ma allargare al femminile non significa solo “occupare” di più, significa mettere a disposizione della collettività quelle caratteristiche di genere che si declinano diversamente tra i due sessi. Caratteristiche complementari e che oggi sono fortemente squilibrate a favore della parte maschile. Sono requisiti che migliorerebbero la competenza della forza lavoro e quindi le potenzialità di crescita del sistema produttivo.
Vedere e riconoscere questa realtà deve essere sforzo comune e prendere impulso in primis dalle donne. Troppo spesso infatti il maschilismo radicato, ancora dominante nella nostra società, risiede proprio nelle loro pance. Quindi un auspicio: è necessario che le italiane facciano un vero cambio di passo e che comincino a credere in loro stesse affrancandosi da quello stato di asservimento alle necessità della famiglia e di subalternità nei confronti dei loro compagni e diventando prime protagoniste di cambiamento. E’ ora di rompere la tradizionale visione che le vede sole al centro del nucleo famigliare. Le nuove tecnologie hanno in larga misura sostituito condivisione a competizione. E’ arrivato il momento di esportare tale modalità anche tra le mura domestiche.