Quando si parla di temi economici si spazia in ogni campo. Ci si concentra su lavoro, fisco e spesa pubblica, ma spesso rimangono in ombra le valutazioni sul capitale. Eppure la sua definizione è alla base dello studio delle materie economiche. Anche Karl Marx lo assunse a protagonista principale nel suo assai noto trattato, proprio ad esso intitolato. Questo semplicemente per dire che in economia il capitale e il modo in cui governi e istituzioni ne regolamentano remunerazione e impiego, è focus di primissimo piano. In Italia da sempre, e a causa di un ideale di società “solidale” che si identifica, a torto, coi valori della tradizione socialista, l’argomento disturba. Non così in Germania, né tantomeno nel Regno Unito per non parlare degli Stati Uniti.
Ma al di là delle vetuste e nostrane ideologie – in particolare di quella estrema ereditata dal sessantotto, di cui siamo purtroppo ancora intrisi -, creare lavoro significa, in prima istanza, impiegare capitale. Investire in attività produttive, nella ricerca e in tecnologia è la chiave del benessere e oggi rappresenta anche la principale leva per attenuare le diseguaglianze. Mi spiego, pensare che si possano mitigare nel Paese, le differenze sociali e di censo, utilizzando la leva fiscale in senso redistributivo è, allo stato attuale, pura demagogia. Il fisco in Italia ha depredato le tasche dei cittadini e scoraggiato fortemente l’impiego di capitale in attività produttive con conseguente crollo dei posti di lavoro. Per tali pratiche lo spazio è over. I capitalisti investono in diversi assets di certo più sicuri e senz’altro più remunerativi. In breve: i ricchi diventano più ricchi e puntano su sicure rendite e la popolazione impoverisce. Di qui l’aumento delle diseguaglianze. Diffidiamo pertanto della tanto abusata retorica: chi ha di più deve sacrificarsi maggiormente. Ciò infatti non accade. E non accade per vari motivi, tra gli altri anche grazie ai freni posti dalla nostra stessa Costituzione che in certa misura impediscono prelievi incontrollati che rasentano la confisca. E sicuramente perché chi possiede denaro in misura significativa si defila, senz’altro non lo sacrifica.
Se poi guardiamo a chi per tradizione o meglio, oggi per vocazione, imprenditore lo è e lavora con tanto sacrificio personale e con scarso rendimento – ricordiamo che, in Italia, l’utile che produce una società, se distribuito (dividendo), può arrivare a essere tassato fino al 70% -, ahimè c’è da presumere non avrà più seguito. Difficilmente gli eredi saranno disposti ad accettare, una remunerazione modesta a costo di tanto onere personale, e tanto rischio.
Alla legge del profitto insomma non si sfugge. E’ una legge inderogabile alla base di tutte le economie capitalistiche. L’Italia non fa eccezione. E’ dalla sua creazione che l’impresa trae la sua ragion d’essere da cui discende la contestuale creazione di posti di lavoro. Dove esso non c’è o è ridotto al lumicino, l’impresa svanisce.
Una delle scelte fondamentali di politica economica dovrebbe quindi puntare a favorire il profitto, l’accumulo di capitale e il suo reimpiego in industria, servizi, ricerca e nuove tecnologie. Serve quindi una leva fiscale in contro tendenza e certo non “politically correct”. E’ vergognoso affermarlo? Può darsi ma non importa. Rimane uno spunto di prima istanza al pari di una incisiva e generalizzata manovra di riduzione dell’imposizione sui redditi da lavoro e di taglio drastico della spesa pubblica. Istanze, queste ultime, che ricorrono sovente nelle agende dei politici senza esser mai state veramente realizzate.