Israele, epopea di un popolo e non solo

Pubblicato sulla rivista Altro&Oltre nr. 34, luglio 2020

Israele, epopea di un popolo, questione davvero complessa. Si tratta di un conflitto senza fine le cui ragioni si sono perse negli anni alimentate da un’intricata rete di odio e ritorsioni. E’ interessante però esaminare alcune tappe di questa storia, e in particolare quelle all’origine di un fenomeno, quello dell’epopea ebraica, talmente straordinario da non avere paragoni in altri contesti umani.

Il movimento sionista

Il movimento sionista inizia a fine ‘800, e assume una dimensione significativa in seguito alle persecuzioni zariste in Russia. Alla base è l’affermazione del diritto all’ autodeterminazione del popolo ebraico. Il fondatore del movimento sionista fu il giornalista e drammaturgo, ungherese di nascita, ma viennese di adozione, Theodor Herzl (1860-1904). Herzl, ebreo assimilato, nel 1895 ne teorizzò le basi sull’onda del turbamento provocato dal processo Dreyfus, che in quegli anni divideva l’opinione pubblica francese e dall’ondata di antisemitismo che in quell’occasione attraversò l’Europa intera. Il manifesto programmatico, dal titolo Der Judenstaat, ebbe una grandissima risonanza tra gli ebrei d’Europa, al punto che nell’arco di un solo anno venne costituito il vero e proprio movimento sionista, che dal 29 al 31 agosto 1897 tenne a Basilea il suo primo congresso mondiale. Per tutta la prima metà del XX secolo fu importante ma minoritario, divenne invece maggioritario in seguito alla Shoah, dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, in cui oggi vive circa il 30% degli ebrei del mondo.

Le Alyah, biblico ritorno alla terra promessa

A fine ottocento gli ebrei scappano in Palestina per sfuggire ai pogrom ricorrenti, incitati dalle milizie zariste. Il malcontento della popolazione russa, indigente e ancora soggetta alla servitù della Gleba veniva convogliato sugli incolpevoli ebrei che vivevano nei ghetti. Sono oggetto di massacri indiscriminati, capri espiatori di ogni nefandezza subita dalla popolazione. Così a ondate alterne si abbatte sulle enclave ebraiche una violenza fanatizzata totalmente ingiustificata che spinge molti ebrei russi a emigrare verso la Palestina. Ma le migrazioni in realtà interessano tutta l’Europa: da sempre il popolo ebraico è stato perseguitato un po’ ovunque nel mondo e in particolare in Europa, basti pensare all’Inghilterra medievale che addirittura lo espulse. Le ondate migratorie si intensificano nel tempo fino a raggiungere la loro massima espansione dopo la seconda guerra mondiale.

Il popolo ebraico è continuamente in viaggio a cavallo di due secoli, verso “la terra promessa” chiamata anche la terra del “latte e del miele”: in realtà, un territorio desertico e inospitale dove vivono gruppi di beduini nomadi, altri stanziali, in condizioni di grave arretratezza economica e culturale. La Palestina era un territorio sotto protettorato inglese, governato dai colonizzatori dell’epoca che si ritirano solo dopo il secondo conflitto mondiale.

La costruzione di Israele

Bene, arrivati in Palestina gli ebrei si danno da fare, un gran daffare. Si insediano in questi territori inospitali, talvolta li acquistano dai beduini arabi e cominciano la messa a coltura del paese. Nel giro di pochi anni le colonie ebraiche diventano aree coltivate. Sono proprio gli ebrei a inventare l’irrigazione goccia a goccia – poi diffusasi in tutto il mondo –, per alimentare le coltivazioni senza sprecare l’acqua che certo non abbondava in quei luoghi desertici. In alcuni casi familiarizzano coi vicini di casa e riescono a creare proficue sinergie aiutandoli a coltivare i loro appezzamenti. Pian piano gli insediamenti si trasformano in borghi più ampi fino a diventare vere e proprie città. Così Tel Aviv, fondata nel 1909 letteralmente “collina della primavera” denominazione che fa riferimento a un passo della Bibbia: nel Libro di Ezechiele, infatti, la “collina della primavera” è proprio il luogo dove – nella visione del profeta – trovano casa gli ebrei in esilio.

Ma la coabitazione non è facile e le relazioni con gli indigeni peggiorano, i dissidi si accentuano. Gli arabi scatenano, proprio come in Russia, razzie ricorrenti e indiscriminate uccisioni. Gli ebrei si difendono, si difendono bene. Ingaggiano una partita incredibile, arbitro, non sempre imparziale, l’esercito di stanza nel protettorato di sua maestà britannica. L’Haganà è la milizia ebraica riconosciuta dagli inglesi. Una parte di essa si stacca e va ad alimentare la frangia più oltranzista quella dei Mccabei.  Così tra attentati, ritorsioni e disordini di ogni genere, arabi e israeliani si avvicinano alla fatidica data che segnerà il ritiro degli inglesi e l’inizio della vera e propria guerra tra i due popoli: quella della spartizione della Palestina, votata dalle Nazioni unite nel 1948. E’ l’alba dell’odierno conflitto. Egitto, Giordania, Siria con 5 milioni di arabi attaccano 500 mila ebrei. Intanto si infittiscono le alyiah, i flussi di migranti che, in cerca di un focolare, arrivano in Israele da ogni parte del mondo non più frenati dagli argini inglesi.

La strategia di un popolo

E’ interessante indagare sulle ricette messe in campo dagli israeliani che hanno consentito a questo popolo eccezionale non solo di sopravvivere e di vincere, ma anche di prosperare facendo diventare il loro paese uno dei più avanzati del mondo. Un grumo di democrazia tra le dittature mediorientali.

Le donne

Innanzitutto ogni cittadino e cittadina ha pari dignità. Ed è così quasi da subito, ai tempi dei primi insediamenti. Una strategia che ha permesso di recuperare quella “metà del cielo” che più o meno ovunque viveva e vive in condizione di subalternità se non di vera e propria sudditanza. Il riscatto del genere femminile è automatico, a dispetto delle interpretazioni più ortodosse delle sacre scritture, e porta alla realizzazione di uno stato laico. La scelta è vincente, le donne sono coinvolte nella difesa e nella costruzione di Israele. Le loro risorse intellettuali, organizzative e di educazione sono accolte e messe al servizio della nazione potenziandone gli effetti.

Kibbutz e Moshav

L’organizzazione delle comunità è rigorosissima. Se si vuole capire come può realizzarsi una vera propria società “comunista” di successo, ecco l’unico esempio al mondo è proprio Israele. Gli ebrei fondano i primi insediamenti abitando in Kibbutz, il primo risale al 1910 nelle vicinanze del lago di Tiberiade. I kibbutz sono fattorie dove tutto è in comune e ogni individuo ha uno specifico ruolo che spende esclusivamente a favore della comunità e per la sua sopravvivenza. Le regole sono rigidamente egualitarie, la proprietà è collettiva. Tutto è stabilito, tutto è pianificato. Comune è l’educazione dei bambini, il durissimo lavoro nei campi e la difesa con le armi. Accanto ai kibbutz prosperano anche stanziamenti dove i nuclei famigliari conservano una certa individualità, sono i Moshav, cooperative agricole composte da fattorie singole, sempre rigidamente organizzate sull’idea di una conduzione comune, ma, al loro interno, più simili alle normali organizzazioni famigliari.

Accoglienza

Ogni ebreo che arriva, qualunque sia la sua provenienza e la sua cultura, viene accolto in Israele che si dota anche di una lingua nazionale recuperando l’ebraico, idioma ormai morto che diventa lingua ufficiale insieme all’inglese. E anche questa è un’operazione mirata a formare una forte identità nazionale.

Quanto agli immigrati, è degna di nota una vicenda su tutte, a dimostrazione della potente solidarietà messa in campo. Il ponte aereo che porta i falascià in Israele. Sono ebrei etiopi, non si distinguono dalle popolazioni originarie né per la lingua né per i tratti, ma solo per la religione professata, l’ebraismo. Sono primitivi e di cultura tribale. Minacciati da carestie e dalle repressioni del governo etiope nel 1977-1979, emigrano verso il Sudan, che si dimostra ostile nei loro confronti. Israele decide quindi di trasportarli nel proprio territorio in maniera massiccia. Tre le operazioni che si susseguono e che trasferiscono circa 90.000 ebrei neri, l’85% della comunità presente. I falascià vengono così strappati alle persecuzioni e integrati nel nuovo stato.

Molto altro si potrebbe dire di questa vicenda epocale, dolorosa e complicata di cui ancor oggi non si scorge il bandolo. Purtroppo nessuna trattazione sarebbe esauriente. Capitolo importante è senz’altro la questione dei profughi palestinesi. Ma una narrazione sul tema non può prescindere da valutazioni e giudizi difficilmente moderati, sempre schierati. Non è questo lo scopo di questo scritto, lo è stato invece quello di dare, per sommi capi, l’idea del carattere di un popolo: duro, inflessibile, solidale al tempo stesso, che con vigore a volte ai limiti della spietatezza, combatte per la propria sopravvivenza per sfuggire da pregiudizi millenari.

Ultimi articoli

Archivio

Il nostro sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente ed ottenere alcune statistiche importanti. Leggi la nostra cookie policy.

Ok, accetto