Pubblicato sulla rivista Altro&Oltre nr. 23, novembre
E’ lontana ormai la rivoluzione sessantottina che ha dominato in Italia per più di un decennio con la forza dirompente di una contestazione riguardando tutti gli schemi etici della vita di allora, facendoli a pezzi.
Non fu un momento positivo. Fu un disastro. In termini di convivenza civile tenne sotto assedio città, università e fabbriche. In termini concreti dilapidò i talenti di una generazione, quella dei padri, faticosamente impegnata a ricostruire l’Italia del dopoguerra. Sfornò dalle università masse di ignoranti che si sparpagliarono in posti pubblici, generosamente distribuiti, causando inefficienza e disservizi. Per le professioni fu diverso, laddove comunque era necessario il merito per poter lavorare, molti dovettero faticosamente recuperare quelle competenze sbandierate come inutili nelle piazze. La classe politica e soprattutto quella degli intellettuali, scusava, giustificava e simpatizzava per le frange estremiste della contestazione avvalorandone di fatto la degenerazione: il sessantotto fu il terreno di coltura del terrorismo che dilagò nel decennio successivo e che ebbe il suo culmine nella barbara uccisione di Aldo Moro.
Perché dunque ricordare quei tempi. Dei quali peraltro i giovani contemporanei non sanno quasi nulla?
In primo luogo perché allora i giovani si interessavano di politica, cercavano di capirla e tentavano di non subirla, volevano trasformarla. Al movimento sessantottino si saldò quello femminista e quello libertario dei figli dei fiori. Negli Stati Uniti lo spunto che maggiormente agitò gli animi fu la guerra in Vietnam e il sessantotto ne fu la principale causa di conclusione, fermando la strage di migliaia di ragazzi americani inviati al fronte. Insomma in quegli anni tutto l’Occidente fu travolto da un’ondata di proteste partite dal mondo studentesco, estese al mondo operaio e che purtroppo sfociò, nel nostro paese, negli anni di piombo.
Fu poi, un momento di grande condivisione che originò sentimenti di uguaglianza e il desiderio di giustizia sociale. Ideali e sogni, talvolta utopistici. Ma, si sa, le generazioni senza sogni sono generazioni perdute: si identificano nel reale grigiore della quotidianità e smarriscono quello spunto creativo che spinge l’umanità a progredire e a migliorarsi. Quello del sessantotto fu un pensiero diffuso tra i tanti giovani che si univano protestando contro l’autorità. E, nel bene e nel male, ne venne spazzata via un bel po’ di questa autorità. “Il est interdit d’interdir”, è vietato vietare, recitava lo slogan degli studenti francesi.
Cosa ci è rimasto di quel tempo ormai dimenticato? Sono stati per sempre abbattuti i tabù sessuali; si è dato il via al lungo cammino per la conquista della parità dei diritti tra uomo e donna – sino a quel momento in posizione subalterna anche secondo la legge -; i lavoratori hanno ottenuto il riconoscimento di diritti allora impensabili che hanno trovato codifica nello statuto dei lavoratori (1970). E ancora, dal punto di vista dei diritti civili ci fu il trionfo del referendum sul divorzio e anni dopo di quello che sancì il diritto insindacabile della donna di abortire. La suggestione dei forti sentimenti che dominavano la collettività, ha coinvolto cantautori e artisti che, per molti anni a seguire, hanno prodotto musiche ineguagliabili. Vere e proprie poesie ancor oggi di grande attualità. Poco invece ci è stato tramandato sul fronte letterario. Neppure Jean Paul Sartre, musa ispiratrice delle proteste francesi, è entrato nel novero dei letterati che oggi rileggiamo.
Il forte senso di appartenenza, il sentimento inebriante che pervadeva folle esagitate di ragazzi convinti di poter cambiare tutto, oggi manca. Manca il senso del futuro, la convinzione di poter migliorare il paese.
Nelle sporadiche interviste che ogni tanto punteggiano i giornali sul fenomeno di fuga dei cervelli, si leggono perlopiù testimonianze rassegnate, grigie e senza speranza. Ragazzi che da Sud fuggono a Nord per studiare – le università meridionali hanno perso percentuali impressionanti di iscritti -, e che dal Nord emigrano in altri paesi alla ricerca di condizioni di vita e lavoro migliori di quelle nostrane.
I giovani non si intendono di politica, non la amano – forse anche a ragione –, e nello stesso tempo non si propongono di riformarla, considerandola un male ineludibile e incorreggibile. La rassegnazione è così pervasiva che al minimo cenno di cambiamento si oppongono. E’ stata preponderante la componente giovanile che ha votato contro il referendum per la riforma della costituzione. Un voto espresso, nella gran parte dei casi, senza l’approfondimento e le conoscenze necessarie per poter esprimere un giudizio consapevole. E’ stato perlopiù il risultato di una rabbia suscitata da urlatori fraudolenti.
Quella di oggi è una generazione ignorante del suo tempo, spesso in balia delle false informazioni che viaggiano in rete (si stima che il 50% dei giovani ne sia vittima). L’informazione quella competente e professionale non interessa. La complessità delle questioni sfugge. Si Semplifica e semplificando si fraintende.
Rievocare, a stimolo della gioventù contemporanea, gli ardori del sessantotto sarebbe sbagliato e altrettanto fuorviante, sarebbe attribuire il disagio giovanile unicamente ai padri. Invocare una maggiore consapevolezza di come si è generata la società contemporanea, peraltro risultato di tante meritevoli conquiste, e un più saldo senso di appartenenza, potrebbe invece rinfocolare la speranza di un domani migliore: un buon punto di partenza per cercare di cambiar quello che gli eredi del sessantotto, non sono riusciti a cambiare.
Foto: Michele Ursino