Pubblicato sulla rivista Altro&Oltre nr.11, settembre 2014
Mi è capitato un giorno di questa estate di imbattermi su Facebook in una foto surreale. Seguivano i commenti dei frequentatori: alcuni irriverenti, altri: “non condivido ma rispetto”; “bisogna conoscere altre culture prima di giudicare e comunque io rispetto le altrui usanze” e qualcos’altro riferito con sprezzo riguardo a una certa “presunzione” della superiorità della cultura occidentale.
Non è proprio esatto definire questa predisposizione a comprendere come “rispetto” delle usanze altrui. Diciamo che è piuttosto una sorta di buonismo cammuffato da tolleranza verso pratiche che dovrebbero essere universalmente inaccettabili. Spiego: nascondere le persone significa negarle. Significa impedire loro di manifestare sentimenti ed emozioni e di condividerli. Queste donne non possono mostrare l’espressione del volto, degli occhi, del sorriso, spesso nei loro paesi non possono guidare o andare in palestra o persino studiare. Quasi mai decidono delle loro vite. Nascondere significa anche qualcosa di più banale e pratico. In questo caso, negare di avere un ricordo e riconoscersi in una foto, un diritto sepolto sotto un manto di vesti nere.
Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Onu – Parigi, 10 dicembre 1948) in cui ci riconosciamo e cui fa riferimento tutta la comunità internazionale, le libertà individuali sono sancite come diritti inviolabili della persona. Ma si sa la retorica non ha confini e, in virtù di quella degenerazione culturale che confonde la viltà con la tolleranza, siamo disposti a chinare il capo invocando “le differenti culture che dovremmo conoscere prima di giudicare”, per giustificare chi per legge, adotta quello che io uso definire: razzismo di genere, quello femminile.
Ed è proprio questo il vero lato oscuro della cultura occidentale. La nostra titubanza travestita da rispetto delle tradizioni più oscurantiste e la nostra incapacità di prendere posizioni nette e chiare. Più in generale questo atteggiamento ci porta ad essere indifferenti verso le guerre altrui: pavidi travestiti da protervi “pacifisti”. Anche quando la sventura colpisce i nostri fratelli cristiani perseguitati ormai ovunque, e che i fatti internazionali più recenti ci consegnano come prede imbelli di una organizzatissima banda di criminali – riconosciuta come tale anche dalle più autorevoli voci dell’Islam – che abbiamo lasciato crescere e prosperare e organizzarsi proprio all’ombra di questa viltà. Quella tolleranza che ha consentito alla guerra civile Siriana di snaturarsi e di mutare da “Primavera araba” in guerra tra estremisti, banditi e regime: un conflitto di tutti contro tutti, divenuto ormai ingestibile per il semplice motivo che non esiste parte con la quale potersi schierare.
C’è voluto un forte monito, quello di papa Francesco per risvegliare un poco le coscienze sopite, solo dei governi beninteso, ora intervenuti in armi per garantire le vie di fuga degli oppressi e cercare di arrestare la rovinosa valanga criminale. Manifestazioni di popolo non ve ne sono state. Si sprecano quelle contro gli Israeliani fomentate da una propaganda antisemita, ahimè ancora malignamente radicata, che demonizza il forte e sublima il debole che in quanto debole per forza deve avere ragione. Contro la Jihiad violenta e a sostegno dei diritti dei cristiani invece non manifestiamo. Siamo rannicchiati nel nostro caldo covo di benessere e di pace che diamo per scontati. Non ricordiamo quanto abbiamo lottato per conquistarli e quanti sono morti per la salvaguardia delle libertà in Europa. Siamo cristiani annacquati – come ci definisce lo stesso Francesco -. Abituati a pensare che la sfavorevole congiuntura economica sia la iattura peggiore che possa capitarci. Sul pianeta invece c’è di peggio e molto: gente che muore, viene torturata, donne e bambini che vengono negati, sepolti dalla cultura delle non-persone. E questo prima o poi riguarderà anche noi. Arriverà in qualche forma, se già non c’è, anche a casa nostra. E presto o tardi dovremo farne i conti. L’11 settembre ne ha già fornito un doloroso esempio.
Sono circa 200.000 i cristiani fuggiti dall’Iraq e che ora sono profughi in Curdistan. Chiedono asilo all’Occidente. Anche se ne avessero la possibilità non vogliono rientrare nelle loro terre, fiaccati da continui attacchi, l’ultimo ne è solo l’epilogo. Popolavano, in quelle zone, antichissime enclave di cristiani ortodossi. E noi siamo silenti. Solo la Francia ha aperto uno spiraglio. Ma cosa mai sarebbe sistemare 200.000 richiedenti asilo su un territorio vasto e ricco e che ospita quasi 860 milioni di cittadini (tra Canada 35 milioni, Stati Uniti 316 milioni ed Europa: Ue a 28, 506 milioni)? Naturalmente la nostra solidarietà va a tutti i perseguitati: agli Yazidi, ai Turcomanni sunniti e a tutti coloro che, tacciati di apostasia, sono minacciati di morte se non abbracciano la “vera” fede.
Ma di più dobbiamo ai cristiani, è nostro dovere etico accoglierli senza riserve. E non si tratta di una questione religiosa intendiamoci. Il Cristianesimo è anche una cultura e riguarda, in Occidente, credenti – personalmente non lo sono – e non credenti. E’ un insegnamento profondo che pervade le nostre vite fin dalla nascita e ha il suo fondamento nell’accettazione e nel rispetto dell’altro e nella tolleranza del perdono. Non possiamo negare l’accoglienza a chi, torturato e perseguitato, come noi condivide il fondamento del nostro stesso mondo. Ciò che ha permeato le nostre istituzioni contribuendo alla costruzione di quella società libera e pacifica che abitiamo e di cui sovente dimentichiamo il valore inestimabile e, perché no, pure superiore.